Le Rubriche di una Chiara qualunque – 15

Quindicesima storia, dietro le quinte di un libro. E’ qui, su Seven blog, oppure continuate a leggere qui…

Lupe dai denti guasti
dsc02364“Florentino Ariza doveva badare allora a troppe incombenze nello stesso tempo, ma non perse mai l’energia per incrementare le sue esperienze di cacciatore furtivo. Dopo l’esperienza erratica con la vedova di Nazaret, che gli aprì la via degli amori di strada, seguitò a cacciare le
pollastre orfane della notte per diversi anni, sempre con l’illusione di trovare un sollievo al dolore per Firmina Daza. Ma poi non potè dire se la sua abitudine di fornicare senza speranza fosse una necessità della coscienza o un semplice vizio del corpo. Andava sempre meno all’albergo a ore, non solo perché i suoi interessi seguivano altri percorsi, ma anche perché non gli piaceva che lì lo vedessero preso da peripezie diverse da quelle tutte domestiche e caste che gli conoscevano.”

Gabriel Garcia Marquez – L’amore ai tempi del colera

Mi chiamo Lupe, ho i denti guasti.

Mi trovi al vicolo, quello che scende verso l’attracco delle navi che scivolano sul fiume. Dalla taverna il terzo, conta. Poi, se svolti e ti lasci inghiottire dal buco tra le case bianche e scrostate – con le porte coperte da tende pesanti da anni di sporco che si gonfiano a fatica al vento che soffia- e conti di nuovo fino a quattro, quattro porte, ecco: sei arrivato.
Ci trovi me e mia madre, la vedova. Mio fratello no, lui si è perso su una di quelle navi: un giorno è partito e non è più tornato. Forse ora è nella foresta, forse lo ha mangiato un coccodrillo, forse è arrivato fino alla capitale e ha fatto fortuna. Non so, non mi importa.
Un mango, una papaya, una banana, un poco di latte.

Una bambola di pezza tutta sbrindellata, con i capelli di fili di lana mangiati dalle tarme.
I pidocchi mordono e prude la testa, prude il corpo. Ho il petto che sembra una carcassa di mucca sbiancata dal vento, ma con le tette.

Ehi, tu, signore che cammini rigido come una scopa, con il bastone dal pomolo d’argento e il colletto inamidato, tu che hai perfino le ghette, mi vuoi? Lo so che vai all’albergo a ore, quello dove la gente va a far finta di amarsi. Ti ho visto arrivare e andare via, ti ho visto spiare furtivo, non vado bene per te?

Una papaya, due monete, un panino fresco di forno. Mi accontento di poco, e per quel poco posso regalarti un momento di gioia selvaggia e vietata: vuoi? Un mango, solo uno. Anche mezzo, dai, signore dalla camicia che profuma di ferro da stiro, sto attenta, non ti sgualcisco. Dopo puoi andare al lavoro là, al porto, tutto soddisfatto per aver posseduto un angolo ossuto di paradiso. E io posso sedermi sul letto a mangiare il mio pane bianco, il mio mango, la papaya, come se fosse il pranzo della regina. Sperando che mamma non veda.

A mamma piace quello che fa. Dice che è stato un signore che sembrava un prete con i coglioni stretti nella morsa di un falegname a farle scoprire quanto è bello essere una puttana, tanto tempo fa. Mamma, la vedova.
Papà, non so chi è. Io sono figlia di mamma, ho un fratello sparito con l’ultimo sguardo alla poppa di una nave, i denti guasti e per un mango o una papaya puoi infilzarmi nei vicoli bui.

Due stanze senza finestre né porte al piano terreno di una casa che forse una volta è stata nuova. Tira la tenda: io dormo lì per terra sul materasso insieme a Lupita, la bambola di pezza dai capelli di lana stopposi, sfilacciati e pieni di buchi. La stringo forte come se fosse la mia bambina, la cullo e la accarezzo, e le dico piano: “Queste cose tu non le farai mai, tu sarai una vera signora, non come la tua mamma”, poi canto una canzone del porto e ci addormentiamo per non sognare.

Ho iniziato tanti anni fa, guardavo mamma da dietro la tenda. Lei in realtà mi mandava a giocare per strada quando portava un uomo a casa. Ma io facevo solo finta di uscire, rientravo e guardavo da uno dei tanti buchi nella tenda. Vedevo il volto di mamma cambiare, gli occhi si chiudevano stretti e sorrideva, sorride gridando ancora e ancora e sì, così… loro, gli uomini, non li guardavo mai. Erano tutti uguali, ma mamma invece sembrava tanto contenta.

Un mattino mi ha scossa e mi ha detto “Sei quasi grande, trova un modo per portare qualcosa da mangiare a casa.”
Avevo nove anni, credo.

La prima volta ha fatto male poi, col tempo, solo schifo. Tanto schifo. Ho imparato a fare come mamma, a sembrare tanto contenta, però mi fa schifo.
Ma non fa schifo anche conciare le pelli immersi fino alla vita nel piscio?

Ora di anni ne ho quindici, credo. Non è che non so i numeri, io… è che non riesco a tenere tanto il conto del tempo che passa. Ieri ho mangiato una pera ed è passato Juan, quello che puzza ed è grasso, pieno di pustole in faccia. Non mi piace, ma è meglio che stare a bagno, a sguazzare nel piscio.

Due giorni fa invece è stata una buona giornata: il maestro e il garzone del lattaio, quello bello. Mi piace, è gentile, mi porta una brocca di latte quando viene, e non importa se mentre lo fa mi fa male. Mi porta il latte.

Il giorno prima ancora non so, non ricordo… è tutto una nuvola bassa di facce e di corpi sudati che ansimano, di notti e di giorni. Capito perché dico che ho quindici anni, credo? Ogni giorno è sempre uguale all’altro, che senso ha contarli?

Ci sono le piante e le piogge e il fiume, le estate di insetti e profumi e uccelli che cantano forte, c’è stata la guerra e anche l’epidemia: sono morti in tanti e bruciavano le carcasse tutte insieme, dicono. C’è tutto che cade e si scrosta: i calcinacci, le porte e i vetri sbrecciati, i capelli della mia bambola di pezza e i miei. I miei denti, tutti guasti.

Sono entrata in chiesa, una volta, durante la messa grande. In mezzo a tutti i signori eleganti e leccati, vestiti a festa, ho visto l’uomo inamidato con il bastone e i baffi, quello che spia, che fissava una donna che sembrava una bambola di porcellana (le ho viste nelle vetrine del negozio in centro, non mi invento nulla, esistono davvero). La guardava con l’aria disperata di chi vuole quel fico, quello là, in cima all’albero. Il fico più bello, maturo e lucido di rugiada di tutti i fichi dall’inizio dei tempi. Così la guardava, ma si vedeva che non aveva trovato la scala.

La guardava e non poteva avvicinarsi a quel fico, mentre l’uomo di fianco alla signora, elegante e secco, alto e con il viso sicuro, aveva trovato la scala e gli aveva soffiato il fico più dolce del mondo.

Sono entrata in chiesa durante la messa grande e ho respirato l’incenso e i colori delle vetrate, ho ascoltato e bevuto le voci che si alzavano al cielo, pregavano e ringraziavano Dio per i doni che gli aveva concesso nella sua grazia e generosità.

Mi sono chiesta: per cosa dovrei ringraziare Dio, io, Lupe dai denti guasti? Dovrei ringraziarlo di non essere nata conciatrice di pelli, forse.
Ma è dura davvero ringraziare, quando si è me.

Dovrei ringraziarlo per aver visto l’uomo impettito guardare in faccia la sua infelicità? No, non mi dà alcun piacere gioire perché c’è qualcuno che sta peggio di me.
A me non piace fare la puttana, ma io sono saggia: non cerco alcun fico, io. Non credo nei fichi.

Fermati un attimo, signore infelice, fermati e guardami: per una papaya matura faccio tutto quello che vuoi.

Le Rubriche di una Chiara qualunqe – 14

telephoneQuattordici. C’entra qualcosa il fatto che tra due giorni è San Valentino, ricorrenza intrisa di cuore e sentimenti? Assolutamente no.
Se cercate qualcosa che parli d’amore, questa volta passate oltre, che oggi a parlare è un supereroe accidentale.

Da Seven Blog a questa pagina, più veloce della luce.

Ho salvato il mondo

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Le rubriche di una Chiara qualunque- 13

a-monetRipropongo, come di consueto, come la peperonata, la mia piccola rubrica blasfema nei panni di qualcuno che è nei libri. Prima su Seven Blog, poi qui.

Oggi,

Finglas riposa

Dopo qualche minuto, gli Hobbit lo udirono di nuovo mormorare. Parve loro che stesse contando qualcosa sulle dita. “Fangorn, Finglas, Flandrif, ahi, ahi”, sospirò. “Il guaio è che siamo rimasti in pochi”, disse rivolgendosi agli Hobbit. “Dei primi Ent giunti nei boschi prima dell’Oscurità ne restano solo tre: io, Fangorn, Finglas e Flandrif, per chiamarli coi loro nomi elfici; Ciuffofoglio e Scorzapelle, se preferite. E di noi tre, Ciuffofoglio è quasi caduto in letargo (voi direste che ha cominciato a vegetare): ha preso l’abitudine di starsene solo e mezzo addormentato, immobile in un prato per tutta l’estate, con l’erba che gli cresce fino alle ginocchia. È ricoperto di capelli simili a foglie. Un tempo si svegliava con l’arrivo dell’ inverno; ma ormai è troppo sonnolento per muoversi anche in questa stagione.

J.R.R Tolkien, Le Due Torri, Libro Terzo, Capitolo IV

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